venerdì 26 settembre 2014

Storie di famiglia 3

Quando ero piccolo, andare in vacanza si diceva "scendereggiù". E poiché non era ancora tempo di aerei low-cost, per "scendereggiù" c'erano solo due opzioni: la macchina o il treno. Mio padre ha sempre amato la macchina: una lunga tirata con sosta a Roma per un pranzo da amici e poi la notte sui tornanti della Salerno-Reggio Calabria, guardando le stelle e bevendo il caffè denso e nero degli autogrill. Mia madre, invece, preferiva stiparci tutti nel vagone letto, con un numero di valige triplo rispetto a quello dei viaggiatori, le frittate di riso, quelle di spaghetti, il termos con l'acqua ghiacciata e i biscotti per la colazione. In entrambi i casi, il momento topico dello "scendereggiù", non era l'arrivo a destinazione ma l'imbarco a Villa San Giovanni. Perché su quei grandi traghetti arrugginiti e maleodoranti,  guardando il "continente" che si allontanava e l'"isola" che ci veniva incontro, col vento che soffiava da ogni parte e magari già addentando il primo arancino, avevamo sempre la sensazione di essere tornati a casa. Ed era una gioia simmetrica e speculare rispetto a quella che provavamo qualche settimana più tardi, quando attraversando lo Stretto in direzione opposta, eravamo contenti che le vacanze fossero finite, perché, in fondo, casa nostra si trovava da un'altra parte e la vita caotica e colorata dei nostri parenti siciliani ci piaceva solo a piccolo dosi.

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