mercoledì 11 giugno 2014

Del cancro. E di mia madre.


Mia madre ha il cancro. Ed è stronza. Le due cose non sono collegate. Non ti viene il cancro perché hai un carattere di merda. E avere una brutta malattia non ti autorizza a trattare gli altri come pezze da piedi. Molto più semplicemente, lei stronza lo è sempre stata. O almeno lo è stata in vari modi, e a vario titolo, da quando la conosco. Il cancro, invece, è una cosa recente. Un regalo di Natale.

Vi siete mai chiesti come vi piacerebbe morire? Dove? Quando? Con chi?

Il cuore dell'AugustaGenitrice ha smesso di battere cinque mesi fa. Dopo la cena della Vigilia. Dopo il cappon magro, il risotto con gli scampi, il branzino, il capitone, l'insalata di rinforzo, gli struffoli. Dopo aver messo il bambinello nel presepe. Dopo Tu scendi dalle stelle, i baci sotto il vischio e qualche brindisi. Dopo aver distribuito una montagna di regali e averne ricevuti molti di meno. Dopo un caffè e una sigaretta, che sono i suoi vizi preferiti. Dopo aver passato tante ore con le persone che ama, e che ama odiare. Dopo tutto questo, si è seduta in poltrona, ha chiuso gli occhi e ha smesso di respirare. Così, semplicemente, senza sentire dolore, senza dire nulla, in punta di piedi. Come quelli che lasciano la festa prima che sia finita, per serbarne intatto il ricordo. Tutto sommato, una morte perfetta.



"Marcella?". Effe fa il medico. E' la mamma dei miei nipoti. In tanti anni non ha mai dato del tu a mia madre. Adesso sono entrambe a terra, in mezzo ai pacchetti, con indosso le perle, gli orecchini buoni e il vestito delle feste. Le mani di Effe comprimono ritmicamente il petto dell'AugustaGenitrice. "Uno... Due... Tre... Quattro... Cinque... Marcella?" FraStellino è in ginocchio, accanto a loro. Ogni volta che il conto arriva a trenta, le pratica la respirazione artificiale. Poi tutto ricomincia da capo "Uno... Due... Tre... Quattro... Cinque... Marcella?" E in quel nome, quel nome che Effe non hai mai pronunciato prima, ogni volta c'è qualcosa di nuovo. Urgenza... Speranza... Paura... Affetto... Disperazione... Sconfitta...

Dieci minuti possono durare come un battito di ciglia o dilatarsi all'infinito. L'ambulanza arriva dopo dieci, lunghissimi minuti. Ne passa ancora qualcuno prima che la voce metallica del defibrillatore riempia la stanza ordinando a tutti di allontanarsi. La scarica arriva. Il corpo di mia madre sussulta sul marmo nero. Beep. Il monitor registra un primo, debole battito.

Città della lanterna. Una notte e un giorno più tardi. Tecnicamente, è ancora Natale. Una donna si sveglia nel reparto rianimazione di un grande ospedale cittadino. Non sa come vi sia arrivata o cosa le sia successo, non sa che il suo nome è stato invocato centinaia di volte sotto un abete trapunto di luci bianche, non sa che nel corridoio là fuori c'è chi l'aspetta senza aver mai chiuso occhio, non sa quante persone si sono adoperate perché potesse svegliarsi e sentire il rantolo meccanico delle apparecchiature che circondano il suo letto. Sa solo di essere nuda sotto al lenzuolo verde, e questo le pare terribilmente inappropriato. Sa anche di non poter parlare perché è ancora intubata. Richiama l'attenzione di un medico, porta le mani alla bocca, ottiene di essere liberata dal marchingegno che l'ha aiutata a respirare fino a quel momento. Raccoglie le forze, poi, con un filo di voce, sussurra "Non fatelo di nuovo". "Che cosa, signora?". "Non rianimatemi più. Se succede di nuovo, non avete il permesso. Lo scriva in cartella". Adesso che l'ha detto, può richiudere gli occhi. Prima di allontanarsi, il dottore le sistema una maschera sul viso: ossigeno. Lei non gli dirà mai grazie.



Qualche giorno più tardi. Dopo aver lasciato la rianimazione e attraversato la terapia intensiva. "La situazione del suo cuore è molto grave". "Lo so. L'altra notte sono morta". "Ma l'hanno resuscitata. Dovrebbe essere felice". "Quando me ne posso andare?". "In condizioni normali, faremmo un intervento a cuore aperto". "Non fa per me". "Non ha riportato danni al cervello, ma gli esami hanno evidenziato un aneurisma". "Bene, tanto le ho già detto che non intendo operarmi. Posso avere una sigaretta?" "Qui non si può fumare". "Sarà il nostro piccolo segreto". "Mi spiace, non si può... La tac al torace mostra due masse...". "Cancro?". "Sì". "E lei negherebbe l'ultima sigaretta a un condannato a morte?".

Ci sono un cardiologo, un oncologo e un chirurgo toracico. E c'è la paziente più ostile del pianeta. Dopo un lungo negoziato, hanno raggiunto un accordo. "Farete il minimo indispensabile per il cuore. E nient'altro". "Si potrebbe sottoporre a una chemio per ridurre il tumore... E poi... Potremmo provare a rimuoverlo chirurgicamente...". "No. Quante volte ve lo devo ripetere? Mi sono fatta portare il vestito per il funerale. E' bello. Nero. Lungo. Con le maniche lunghe. I cadaveri hanno sempre le braccia livide. Non voglio farmi vedere con le braccia livide. Fate bene il vostro lavoro e non ne avrò bisogno. In caso contrario, in chiesa dovete suonare la Carmen e il Bolero. Non posso soffrire le cerimonie tristi".



Parafrasando Tolstoj, le famiglie felici si somigliano tutte, ogni famiglia col cancro, invece, ha il cancro a modo suo. Natale, quest’anno, è durato un mese. L’abbiamo festeggiato prima nella casa che fu dei miei nonni e poi tra sale d’attesa e corsie d’ospedale. E’ stato un mese intenso, nel quale sono successe più cose di quante vorremmo ricordarne. Siamo stati tristi. Per qualche minuto. Siamo stati preoccupati. Per tante ore. Ma soprattutto, abbiamo riso e scherzato. Per un mese intero. Perché quando avete una madre stronza, non ci sono santi, il più delle volte vi tocca fare come piace a lei. E in questo caso, lei ha deciso così. “Sento che mi restano cento giorni buoni e me li voglio godere. Da oggi in poi, faremo una cosa divertente ogni giorno. A partire da adesso. Datemi le sigarette. E un Margarita. Avanti, chi mi prepara un Margarita?”.



L’AugustaGenitrice pratica la medicina da più di mezzo secolo. E’ un medico migliore della media. Una volta mi ha diagnosticato la sclerosi multipla. In trenta secondi. Al telefono. Senza neanche vedermi. Nel frattempo stava visitando un paziente. Di sicuro il suo caso era più interessante del mio. Sui cento giorni, però, ha preso un abbaglio. "Venti! Sono stati solo venti!". "Venti... Cento... Che differenza c'è? Sono solo numeri. Ci sono andata vicina". "Con un margine d'errore dell'ottanta per cento!". "La prossima volta che stai male, lasciami in pace e chiama un contabile".

Davanti a lei c'è uno specializzando in neurologia. Ha appena confermato la diagnosi che l'AugustaGenitrice si è fatta da sola. A lui sono serviti esami e accertamenti. A lei è bastato accorgersi di non sentire più mani e piedi. La diagnosi è mostruosa, ma lei sorride lo stesso. Sorride perché nulla la rende felice come avere ragione. Certe volte mi chiedo se non sia faticoso. Avere sempre ragione.

"Perché mi fissa in quel modo?". "Mi scusi, è che non ho mai conosciuto una persona come lei... Non capisco...". "Lei è molto giovane. Di sicuro ci sono molte cose che deve ancora imparare. Cos'è che non capisce?". Lui esita per qualche secondo, poi domanda: "Perché?". A questo punto, le tocca scegliere: linciarlo o erudirlo? Oggi si scopre magnanima, gli concede la grazia. "Ho quasi settantadue anni. Di qualcosa dovrò pur morire. Ci sono persone che si attaccano alla vita con tutte le forze. Io no. Ho fatto questo mestiere abbastanza a lungo da sapere come andrà a finire. Ho vissuto abbastanza a lungo da non dover provare più niente a nessuno. Perché dovrei fare qualcosa? Per rinviare l'inevitabile di qualche mese? Un anno al massimo? La vita prima o poi finisce, impari ad accettarlo e sarà un medico migliore. C'è solo una cosa che mi disturba. Con le mani in questo stato, se non mi concentro, le sigarette mi sfuggono dalle dita...".

La vita, in fondo, è questione di priorità...



A vederle così, sedute una di fronte all'altra, sembra quasi che giochino a scacchi. Lei è serena. Fa la sua mossa. Appoggia la busta sul tavolo. Aspetta.

L'altra la prende. Estrae il referto. Comincia a leggere.

C'è un momento negli scacchi che mi lascia sempre senza fiato. E' quando il giocatore meno bravo realizza di aver perso. Magari non subito, non alla prossima mossa, ma comunque presto. Non importa cosa farà, come cercherà di difendersi o se andrà all'attacco, la partita ormai è decisa. Glielo puoi leggere in faccia.

Essere il capo, essere il primario di oncologia, essere una donna all'apparenza forte, essere una giocatrice che ha passato tutta la vita davanti alla scacchiera, non ti rende impermeabile al dolore della sconfitta.

Restano entrambe in silenzio. Si guardano. I ruoli sono assurdamente invertiti. Quella che dovrebbe piangere sorride. Quella che dovrebbe rassicurare l'altra ha un groppo in gola e le lacrime agli occhi. Dimenticate i polmoni: sarà il cervello a ucciderla. Scacco matto.

Restano entrambe in silenzio. Quella cosa, quella che gli altri pazienti temono più di tutto e che -ormai è chiaro- c'è, non viene nemmeno menzionata. Sarebbe come riconoscerle una qualche importanza.

"Ci rivediamo tra quindici giorni?". "Se saremo ancora qui, perché no?". "Ai primi segni, ci chiami. Soffrire è inutile". "Non potremmo essere più d'accordo. Ma sia chiaro, finché non ci sarà bisogno della morfina, io continuo a fumare". "Sarei delusa se non lo facesse". "Pure io".

Mia madre ha il cancro. Ed è stronza. Tanto stronza. Meravigliosamente stronza. E continua ad esserlo nonostante il cancro. Lo è nelle grandi come nelle piccole cose. Lo è quando pretende di possedere la verità in ogni campo dello scibile umano, a partire da quelli che non conosce affatto. Quando si diverte a rendere impossibile la vita degli altri solo per il gusto di farlo. Quando sostiene due posizioni antitetiche nel corso della stessa conversazione e si incazza con chi glielo fa notare. E' stronza quando parla male di qualcuno facendo finta che l'interessato non sia lì, accanto a lei. Quando decide che le regole valgono per tutti, ma non per lei. E' stronza quando vuole insegnare a FraStellino come si fa il genitore, dimenticando che anche lei ha imparato a furia di sbagli. E' stronza quando ogni scusa è buona per bisticciare con Super solo perché non trova un altro modo per dirle quanto tenga a lei. E' stronza quando massacra IlDiLeiConsorte per colpe del tutto immaginarie. Ed è stronzissima quando riesce a guardarmi negli occhi dicendo che l'omosessualità non è una cosa normale e che se uno vuole essere gay lo faccia pure in segreto, a casa sua, ma non in pubblico. Quando però rivendica il suo diritto di morire nel modo che preferisce, quando neanche ci chiede come la pensiamo in proposito, quando continua a bere troppi caffè e a fumare troppe sigarette, quando finge di stare bene mentre visita i suoi pazienti, quando ogni giorno si ostina vivere come se non ci fosse qualcosa che la divora da dentro un pezzo per volta, allora è solo la mia mamma. Che è dura da far male, ha le palle come un toro, ed è coerente fino all'ultimo con se stessa e con le cose in cui ha sempre creduto. Ed è fantastica così.


© itboy_76