AGGIORNAMENTO: Enrico*, scusa, il mio impegno di ieri si è trasformato in una sette ore di inferno contabile. E adesso il medico si è finalmente deciso di ricevermi dicendo "Venga pure, tanto poi deve andare da un chirurgo" (meraviglie della sanità lombarda!). Purtroppo non sono veloce come Insy e Cooper, ti devi rassegnare.
Prendete un circo a tre piste, aggiungete quel tanto di sagra paesana, spruzzateci sopra le immagini finali del Giro d’Italia e shakerate il tutto con molto ghiaccio. L’atmosfera davanti al Castello è più o meno questa. C’è tanta musica, palloncini colorati, striscioni, transenne, gazebo, telecamere e -soprattutto- migliaia di persone mezze assiderate. C’è chi fa stretching un’ora prima della partenza, chi corre avanti e indietro per riscaldarsi, chi cerca il deposito delle borse e chi si mette in posa per i fotografi. Ci sono gruppi sportivi, comitive di amici, lupi solitari e onesti padri di famiglia scortati da mogli e figli adoranti. Quelli più sgamati, quelli che ci sono già passati, si riparano dal freddo sotto tute da imbianchino, fogli di alluminio o strati di plastica. Gli altri, i neofiti come me, si frizionano ogni due minuti e battono i denti.
Si entra nella gabbia in base al numero di pettorale che -a sua volta- dipende dalle performance precedenti. WonderWoman, in quanto maratoneta titolata, viene fatta accomodare in un settore intermedio. A me, invece, tocca stare in fondo. Venti minuti alla partenza. Vengono tolte le divisioni fra i settori e il gruppo si compatta. Quindici minuti. C’è a stento lo spazio per allacciarsi le scarpe. Dieci minuti: chi può togliersi qualcosa di dosso lo fa. Tute, maglie, coperte e sacchetti vengono lanciati fuori dalla gabbia. Cinque minuti: partono gli atleti diversamente abili. Quattro. Tre. Due. Uno. Via, comincia la maratona. Almeno per chi sta davanti. Nelle retrovie si resta fermi. Poi, si viene catturati da uno strano movimento collettivo che si fa marcia leggera e diventa corsa appena passati sotto il grande arco rosa.
Ripasso i numeri. Otto, cinque, venticinque, ventotto, quarantadue, quattro e centocinque. Traduzione. Ci sono otto punti ristoro. Ciascun punto dista cinque chilometri dal successivo. Devo passare da uno all’altro in venticinque minuti (ventotto se qualcosa va storto). In questo modo, farò quarantadue chilometri in meno di quattro ore e saranno passati esattamente centocinque giorni da quando ho ripreso a correre fuori della palestra. Sette anni confinato dal medico sul tapis roulant e 105 giorni soltanto per buttarmi in mezzo a questa folla d’invasati. Mi sa che nemmeno io ho tutte le rotelle a posto.
È dai tempi della Stramilano che non partecipo a una gara su strada. E per Stramilano intendo quella dei 50.000: appuntamento con gli amici davanti all’Upim di Loreto, canzoni cantate a squarciagola, pallone per giocare a volley, incetta di bibite e brioche in Viale Tibaldi, concerto all’Arena e spaghettata finale nella prima casa libera. Insomma, nulla di paragonabile.
Qui la gente è concentrata. E c’è un solo rumore. Thud, thud. Diecimila piedi che battono all’unisono. Thud, thud. Ognuno ha la sua falcata, ma il ritmo è lo stesso. Thud, thud. È un suono ipnotico con un che di rassicurante. Thud, thud. Cinquemila teste che ondeggiano sui Bastioni di Porta Nuova. Thud, thud. Raggiungo WonderWoman, la sua coda da ragazzina e l’iPod infilato nei capelli. Thud, thud. "Ci vediamo all’arrivo. Divertiti!"...
Incrocio i keniani in Corso Venezia. Hanno già fatto il vuoto alle loro spalle. La gente per strada incita gli italiani all’inseguimento. La curva in Piazza Meda è da suicidio. In Piazza Duomo ci sono turisti giapponesi armati di telecamere e macchine fotografiche. Ripensandoci, mi rendo conto di aver visto i turisti, la gente, gli addetti al percorso ma non il Duomo. Eppure, non è così piccolo.
La maratona non è il modo migliore per rimorchiare. Mi ero illuso di poter incontrare uno splendido ortopedico con la passione per la corsa e un ricco conto in banca. Ci saremmo visti, piaciuti, incoraggiati e fatti compagnia fino al traguardo. Poi lui (perché io sono timido) avrebbe proposto di rivederci dopo qualche giorno per un’allenamento a due. Niente numeri di telefono, e-mail o contatti su messenger. Solo un appuntamento in un certo parco a una certa ora. Possibilmente prima dell’alba perché è più romantico.
Niente da fare. Magari intorno a me hanno tutti una laurea in medicina e chirurgia, ma non c’è modo di appurarlo. Peggio ancora: vedo solo spalle e lati B. Alcuni sono decisamente ben fatti, ma cosa bisogna inventarsi per apprezzare il resto? Non posso mica affiancarli e correre con la testa ruotata di novanta gradi sperando che i nostri sguardi si incrocino e scoppi l’amore.
Un attimo... Quella combinazione di spalle e lato B mi sembra piuttosto familiare. Verifichiamo... Altezza, capelli, profilo (quel poco che riesco a vedere senza inciampare): coincide tutto. Sì, è proprio lui. Per comodità lo chiameremo QuelloFigo. Si allena spesso sul tapis roulant davanti al mio (ecco perché sono in grado di riconoscerlo dal fondoschiena) e ci incontriamo sempre nei posti più strani: al concerto di James Blunt, nel Food Market della Rinascente, qui... Purtroppo, non rientra nella rosa dei papabili (lavora in banca, o qualcosa del genere, e ha la ragazza). Resta comunque un belvedere e riusciamo pure a scambiarci qualche parola.
Al quindicesimo chilometro mi impossesso di due mezze banane pensando che siano biscotti (velocità e problemi di vista sono una pessima combinazione). Da non so dove, mi spunta una terza mano che afferra un bicchiere di Polase on the rocks. La miscela è esplosiva: arrivo al traguardo di metà gara in netto anticipo sulla tabella di marcia. Momento di gloria. Perché non c’è Vangelis in sottofondo?
Da qui in poi è tutta discesa, no?
Davanti a me c’è Francesco Arone, completo bianco, calzoni corti e piedi nudi. Bikila è tornato e abita a Torino. Io non arrivo in bagno senza le mie scarpe farcite d’aria. Lui avanza tranquillo, parla con un amico e neanche si accorge dell’asfalto gelido, del pietrisco a bordo strada o delle schegge di vetro rimaste dopo un incidente. Non chiedetevi perché si infligga un tale supplizio. Se corre scalzo vuol dire che gli piace. Va bene così. E poi, cos’è che spinge gli altri cinquemila? Io, ad esempio, che ci faccio qui? Perché non sono rimasto a casa, al caldo, sotto le coperte? Perché ho bisogno di vedere intorno a me questo serpente umano? Perché partecipo a una gara che so di non poter vincere?
Nulla riesce a farti sentire tanto maschio come un completino aderente in misto lycra. È la divisa ufficiale dei supereroi, dei mimi, della nazionale australiana di nuoto e di Brian&Garrison nella sigla di "Fantastico 4" (quella con Heather Parisi che canta Ceralacca). Comunque, col freddo che fa, c’è poco da protestare. La sweat ufficiale poteva essere mezzo millimetro più spessa. La vecchia calzamaglia, invece, è semplicemente perfetta. In realtà, si potrebbe dire che è nuova. L’ho usata solo quella sera al parco, tanti anni fa. Nevicava: io correvo, XXX mi seguiva in bicicletta. Pochi giorni dopo mi hanno detto che avevo le cartilagini da buttar via. Sembra passato un secolo.
Lorenteggio è il paradiso. Finalmente si vede qualche raggio di sole. La corsia è larga. Non ci sono curve. Viene voglia di andare veloci, di sorridere alla gente sui marciapiedi, di accodarsi a qualche gruppo sportivo.
In via Koch comincia l’inferno. Beep. Si accende una spia. Beep. Un’altra. Beeeep. Il dolore è pazzesco, parte dalla punta del piede sinistro e arriva fino al cervello. Ci sono luci rosse che lampeggiano dappertutto.
L’unghia mi si è appena strappata dall’alluce. Zac, di netto. Un male atroce.
Cerco di compensare. Stringo i denti. Carico tutto sul destro. Non funziona. Anzi, diventa anche peggio. Rallento. Cammino. Al chilometro 27 mi fermo. Dalla bocca escono imprecazioni e nuvole di fumo. Tolgo la scarpa. C’è una chiazza rossa in cima alla calza. Massaggio il piede. Sistemo il plantare. Infilo e riallaccio. Ripeto l’operazione con la scarpa destra. Ho perso almeno cinque minuti. Ricomincio a correre.
Arriva QuelloFigo. Mi vede arrancare. Dice "staffetta". O "disfatta". O "disdetta". Non lo so, non sono sicuro. Ormai anche le orecchie mi funzionano male. Troppi beep. Gli rispondo che non penso di farcela. Lui è già due passi avanti, poi qualche metro. Rallento ancora un po’ e lo lascio andare. Diventa un puntino lontano.
Cammino. Guardo per terra. Cento metri di corsa, altri cento zoppicando e avanti così fino al punto ristoro e al terzo rilevamento.
Due ore, ventotto minuti e venticinque secondi. Non vale. Stavo andando proprio bene. E nonostante tutto, anche dopo essermi fermato, anche avendo camminato per un lungo tratto, ho ancora cinquanta secondi di anticipo rispetto al previsto. È ufficiale: continuo.
In un modo o nell’altro, arriverò in fondo a questa maratona.
Non sono l’unico a soffrire. Ci sono altri che non riescono più a correre. Ci guardiamo senza parlare. Su ogni viso è dipinta una smorfia di dolore. Sono sicuro che c’è anche sul mio. Ogni tanto, incontriamo le giacche blu dell’organizzazione. Sono uomini, donne, ragazzi. Vigilano sul percorso. Fermano le macchine per lasciarci passare. Sorridono, battono le mani, ci incitano a non mollare. Mi domando se siano dei volontari o se vengano pagati per farci questa iniezione di umana solidarietà. Uno di loro, in bicicletta, ci accompagna sul lato ovest del Parco di Trenno, quello dei campi e delle cascine, con le Alpi innevate a segnare l’orizzonte. Ci accompagna e dice che non ci dobbiamo fermare. Che dobbiamo andare avanti. Che ormai il più è fatto. Mente, ma gli crediamo lo stesso.
Ho le gambe rigide. Il piede sinistro grida vendetta a ogni passo. Li conto questi passi: così, per distrarmi, per pensare ad altro. Arrivato a duecento, provo a correre ma non resisto a lungo. Ricomincio a trascinarmi. Le scarpe stanno diventando un supplizio. Devo farmi da parte per cercare di sistemarle. Slaccio, tolgo, aggiusto, stringo. Nel mentre, arrivano i pace maker delle tre ore e mezza. È il mio sogno di gloria che mi sorpassa e grida "Ritenta, sarai più fortunato".
Riparto. Mi fermo di nuovo. Terza stazione dolorosa, come nella Via Crucis. Ancora due e incontrerò il Cireneo. Finalmente indovino l’allacciatura meno traumatica. Tra poco, WonderWoman mi supererà con un sorriso beffardo. Posso già sentire il suo fiato sul collo.
Al trentacinquesimo c’è il tè caldo. Uno dei pace maker delle tre ore e quarantacinque non ce la fa più, si arrende. Chi lo seguiva lo guarda sgomento: traditore! Lui è esausto, scrolla le spalle, indica i suoi colleghi. Sembra dire "Vi ho portato fin qui, adesso ci pensano loro a farvi arrivare. Andate, andate tranquilli".
Dopo il cavalcavia del Ghisallo, la città ricomincia a crescere. Niente più prati ma case. E molta più gente per strada. Signore di ritorno dalla messa, signori incappottati, bambini che si sporgono e allungano le dita sperando che tu voglia sfiorarle con le mani.
È una situazione surreale. Qui non ci sono più campioni: solo quattro disgraziati, maratoneti della domenica come me. Eppure, noi facciamo finta di essere atleti veri, diamo il cinque a chi ce lo chiede; loro, in cambio, fingono di essere i nostri tifosi, di essere rimasti là solo per noi. Surreale, ma bello.
Il gelo funziona da anestetico. Oppure è la mia soglia del dolore che si è alzata. Riesco di nuovo a correre. Arrivo al Portello, all’enorme buco che spazia fino a City Life. Scommetto che tra pochi anni la maratona passerà in mezzo alle Tre Torri. Magari si spingerà anche a nord, su, fino ai cancelli dell’Expo.
Corso Sempione. Non ci credo. Manca poco. Si vede l’Arco della Pace, impacchettato come un’opera di Christo e Jeanne-Claude. Si vede il parco, il Castello, la Torre del Filerete. C’è un punto ristoro attrezzatissimo, con tanto zucchero e frutta secca, energia istantanea per lo sprint finale.
In Melzi D’Eril, c’è uno scatto d’orgoglio collettivo. Tutti cercano di recuperare qualche secondo prezioso. Una signora estrae il cellulare e inizia a parlare freneticamente: "Sto arrivando: sono al civico 32, al 30, al 28...". C’è persino chi ha già tagliato il traguardo ma è tornato indietro a prendere un amico e adesso lo scorta verso l’arrivo.
Ultimo chilometro. Lo faccio tutto di corsa. Punto una persona davanti a me. Mi dico che devo raggiungerla. Poi tocca a un’altra e a un’altra ancora. In accelerazione. Cinquecento metri. Duecentocinquanta. Cartelli sempre più ravvicinati. Folla, musica, casino e... centomila punture di spillo. Un crampo, a cento metri dall’arrivo, perché la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. Fanculo! Quando ci vuole ci vuole.
Taglio il traguardo. Una ragazza mi viene incontro con una coperta di stagnola. Allarga le braccia, mi stringe e dice: "Tranquillo. È finita". Super e Fosca scattano foto attraverso le reti. Inizio a tremare. Datemi del tè caldo, una brioche, delle arance, una mela, qualche pezzo di banana, zucchero, yogurt, sali minerali. Non importa cosa avete: mangio tutto, bevo tutto. È finita!
WonderWoman si è ritirata al ventesimo chilometro col cuore impazzito per il freddo. Due elettrocardiogrammi alla tenda della Croce Rossa hanno stabilito che non doveva preoccuparsi.
Il Grigio ha abbandonato dopo la mezza. A distanza di tre giorni, sorrideva ancora come un bambino in un negozio di dolciumi e faceva progetti per l’anno venturo: "Dobbiamo tornarci. Troppo bello. Dobbiamo rifarlo". Ovviamente, era già sul tapis roulant.
QuelloFigo ha fatto la mezza in 1:40:30 e chiuso la maratona in 3:26:44 (nuovo record personale). Ogni volta che mi vede si avvicina e attacca a parlare, prima si limitava a salutare (sono cose...).
Degli altri volti più o meno noti non ho notizie particolareggiate. (Susanna Messaggio è arrivata un istante prima della squalifica, molta gente dubita)
Io sono molto contento.
Il chirurgo si è rifiutato di rimuovere completamente l’unghia. Adesso mi ritrovo con questa cosa nera al posto del ditone. La mattina fa proprio schifo, verso sera migliora.
La Gazzetta non l’ho comprata: devo smettere di cercare sicurezza negli oggetti. Anzi, devo cominciare a eliminare un po’ di roba.
Secondo GoogleMaps il tracciato misurava quattrocento metri più del previsto.
Meno di 24 ore più tardi ha cominciato a nevicare. Viene in mente l'immortale Aigor.
Visualizzazione ingrandita della mappa
Distanza: | 42,195 km | |
Tempo: | 3 52' 51'' | |
Velocità media: | 10,87 km/h |
km corsi negli ultimi 6 mesi: | 1.307,095 | |
km corsi negli ultimi 12 mesi: | 2.040,302 |
Il countdown è ripartito... Manca poco.