giovedì 6 ottobre 2016

Sexta-feira (venerdì)


"Abbiamo avuto un morto".
...
"Anzi due".
...
"Lui l'ha sgozzata. E poi si è impiccato".
...
"Prrttt!!!"
!!!
"Tu però sei fortunato".
???
"Non sei ancora morto. Non ti hanno ucciso. Non ancora".
!?!?!?

Mia sorella dice che è colpa mia se mi caccio io certe situazioni. Che non dovrei dare tanta confidenza agli estranei. Fino a questo punto era stata una giornata fantastica. Sveglia all'alba. Rincogliniomento post sbornia analcolica. Nutella. L'arrivo a Matosinhos. Il momento archistar con le piscine di Leça e la casa de cha (Álvaro Siza non sempre mi piace ma va visto comunque). E poi la nebbia che nasconde tutto e riduce l'oceano a un misto di odori e rumori. Kilometri di pontili. Gabbiani. Pescatori.

Il cammino interno già lo conosco. L'ho percorso l'anno scorso scendendo verso Sud. Questa volta salgo lungo la Costa: è un po' più lungo ma dovrebbe valere la pena. E poi almeno vedrò dei lunghi diversi.
Appena arrivato in ostello mi si è incollato addosso questo francese con gli occhi pallati che fa degli strani versi e parla come un ispettore Clouseau sotto allucinogeni.

"Mangiamo qui?"
...
"Mangiamo fuori?"

Comunque sia, ha deciso che mangeremo insieme. Tutto sommato è meglio qui. Quando domani mattina troveranno il mio cadavere, sgozzato et impiccato, sarà più facile risalire al colpevole.



Quinta-feira (giovedì)


"Ti prego. Resta".
"Non posso".

Dal fondo dello zaino sono usciti una polo scura e dei jeans puliti. Profumano di bucato, quello vero, fatto con la lavatrice e asciugato senza fretta. Visto così sembro una persona normale. Per notare l'abbronzatura "da pellegrino" bisogna venirmi vicino. E comunque la luce blu dei neon confonde un po' tutto.

Qualche settimana fa ero a Porto. Qualcuno mi ha detto "Non puoi tornare in città e non venire una sera al Sao Joao". Per questo ho infilato dei vestiti veri nello zaino. Il Sao Joao è il teatro nazionale. Purtroppo stasera il cartellone è vuoto. Ripiego sul piano B.

"Vado a un concerto jazz alla Casa da Música. Volete venire?". Aine e Piotr mi guardano perplessi. " Ci sarà da bere". Basta usare gli argomenti giusti: accettano subito.

Li guido attraverso la città buia e arriviamo al grande meteorite di cemento. La musica è bellissima. Intorno a noi tanta gente, luci soffuse, color crema. Stiamo là per un po'. Li lascio soli per un istante. Quando torno ho in mano due bicchieri di porto per loro e una birra analcolica per me.

"Venite. Vi porto in un posto speciale".

Ci infiliamo nell'ascensore. Facciamo una rampa di scale. Attraversiamo il ristorante e arriviamo sul tetto. Magia. La città è ai nostri piedi. L'impianto stereo diffonde le note del concerto.

"Come fai a conoscere questo posto?"
"Ho dei buoni agganci".

Molto porto, molta birra e qualche Hendricks più tardi, sono praticamente andati.

"Ti prego. Resta" mi dice lei.
"Non posso" mi guarda perplessa. Capisco che una spiegazione razionale non sarebbe convincente. "Questa città è come una torta -le dico- La adoro. Ma se ne mangio ancora un'altra fetta mi ucciderà". Sembra capire.
"Allora prometti che mi verrai a trovare a Dublino. E che andremo a fare il giro dei locali gay per trovarti un ragazzo.
"E poi verrai anche a Varsavia. Dove di sicuro non abbiamo i locali gay. Ma ci divertiremo lo stesso".
"Prometto, prometto. Adesso però andiamo. Non posso lasciare una brava ragazza irlandese e un bravo ragazzo polacco a vagare mezzi ubriachi per la città".
Tra poche riparto. Loro due no.





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